Intervista ad Alessandra Angelucci

Autrice del libro “Post-it. Appunti sulla scuola” – Di Felice Edizioni

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di Azzurra Marcozzi

Alessandra: giornalista, critica d’arte e in questo caso soprattutto insegnante. Le molteplici sfaccettature delle tue professioni come si sposano con il contesto scolastico?

«Direi che le mie passioni sono diventate anche le mie altre professioni, nel corso degli anni. Un percorso formativo ed umano che si è costruito con molta spontaneità, oltre che con grande sacrificio: l’arte e il giornalismo – e dunque la scrittura – si sono avvicinati a me in maniera silenziosa ed autentica. Io mi sono abbandonata a queste realtà che, vivendole, mi fanno sentire in pace, vera. Una salvezza, per una donna che – come me – vive una vita “caotica” (sostengono in molti), ma che in realtà la rifugge. E tutto questo non può fare altro che sposarsi meravigliosamente con l’altra grande parte del mio vivere quotidiano, che mi vede impegnata a scuola. I saperi – così come le passioni – non viaggiano su vagoni separati, piuttosto coesistono e alimentano la bellezza di un viaggio di cui non sai mai quale sarà la meta futura».

 

Il tuo libro mette al centro la scuola: il momento storico che sta vivendo, uno sguardo al passato e uno alla speranza. Come è nata in te la necessità di trasportare su carta queste riflessioni?

«Insegnare è una vocazione. Dovremmo riappropriarci di questa convinzione: un assunto che dovrebbe ricordare a me – così come a tutti gli altri colleghi – che ogni giorno abbiamo di fronte persone da motivare e non contenitori da riempire. Il momento storico che stiamo vivendo credo sia il più difficile degli ultimi tempi, almeno da quando io stessa vivo la scuola. La necessità di raccontare il mio punto di vista su questo mondo, che rischia di perdere la sua funzione educativa e formativa nonché il suo valore simbolico nel contesto sociale, nasce da una preesistente idea: il desiderio di scrivere un libro che titolasse “Generazione di urlatori”. Fateci caso. Viviamo un tempo in cui non si riesce più a comunicare: si è convinti che più si alzi il tono di voce e più si raggiunga la possibilità di essere ascoltati e compresi. Invece io credo – e sono una fan delle parole dette a bassa voce – che più si urli e più ci si allontani. Da qui, la volontà condivisa con il direttore del quotidiano di Teramo “La Città”, Alessandro Misson, di dare vita ad una rubrica che raccontasse la scuola da un punto di vista privilegiato: non soltanto quello del giornalista, ma anche quello dell’insegnante. Figure che io rappresento come «una felice eccezione», sostiene generosamente Misson nella sua prefazione. Un libro, dunque, che nasce così: fra un desiderio e una volontà».

La scuola alla ricerca di cambiamenti ma soprattutto di un dialogo: un triangolo “insegnanti alunni-genitori” spesso spinoso e difficile da far convivere. Da dove è necessario ripartire?

 

«Non è un caso che il primo Post-it, con cui si apre il libro, titoli “Bisogna ripartire dall’ascolto”. Credo infatti che sia necessario ripartire proprio da qui: da un ascolto attivo che preceda la volontà bulimica di dire e di prevaricare gli altri con il proprio pensiero. Il dialogo fra insegnanti, alunni e genitori poggia su un tessuto che va curato e cucito con costanza ogni giorno, senza dare nulla per scontato. Al centro di ciascuna di queste “categorie sociali” vivono bisogni diversi e desideri spesso disattesi, per cui c’è un grande bisogno di ascolto, ma anche e soprattutto di rispetto dei ruoli: gli insegnanti non vogliono e non possono sostituirsi alla fondamentale figura genitoriale, ma anche i genitori, con la loro presenza nel sistema scolastico, dovrebbero meglio gestire i loro interventi, non pretendendo di abbracciare alcuna logica sostitutiva, come purtroppo spesso accade».

“Esiste una punteggiatura che vive lì, sui banchi di scuola. Molti la ignorano, non possono vederla”: cosa vuoi esprimere con questa frase?

 

«Ti ringrazio per avermelo chiesto, perché questa è per me la frase più importante del libro. Non che gli altri temi affrontati siano meno importanti – anzi – ma credo che nel cuore di questa metafora che tu citi risieda il nucleo portante di tutto il racconto che rivolgo al lettore. Nelle aule, infatti, fra quei banchi che concretamente in pochi possono osservare e vivere tutti i giorni, si delinea una narrazione unica, diversa ora dopo ora, fatta di pelle e cuore, di sorrisi e di paure, così come anche di gioie e desideri. Questi elementi di vita – che io definisco «segni d’interpunzione che le grammatiche ignorano» – dovrebbero essere posti sempre al centro della didattica. Un insegnante attento lo sa, come sa che arriverà quel giorno in cui – al di là delle regole sintattiche e docimologiche – dovrà rispondere a un suo alunno attingendo soltanto dalla sua umanità. Come è successo a me, quando all’orecchio mi sono sentita dire: «Io papà non ce l’ho. È morto. Non l’ho mai conosciuto».

In quelle che potremmo definire le memoria di un’insegnante raccolte in un variopinto diario dai frementi colori accesi a quelli più cupi, vengono trattate varie tematiche: difficoltà di incontro fra genitori e figli, analfabetismo sentimentale, bullismo, la perdita di un alunno, il precariato e l’opinione che della scuola si ha nell’immaginario collettivo, il senso anacronistico delle “Riforme ministeriali”. Tu sei un’insegnante appassionata che crede nella scuola e la guarda a volte con gli occhi dell’alunna di ieri, rintracciando in essa un mondo fatto di speranza, di crescita e un cammino valido per il futuro: e gli alunni di oggi? Cosa chiedono oggi alla scuola e alla vita?

 

«Ecco, una domanda che mette al centro loro: i ragazzi. Sono loro il motore di tutto. Basta osservarli, per rendersi conto che nulla è fermo, anche quando tutto tace e sembra immobile. Loro sono custodi di un pensiero vivo che noi insegnanti dovremmo fare in modo di curare e coltivare, sperando anche nella fioritura di un pensiero critico. Gli alunni di oggi chiedono alla scuola motivazione e concretezza. Possibilità di raggiungere i loro sogni. Perché è questo che loro non smettono mai di chiedere alla vita: il sacrosanto diritto di sognare, e dunque di sperare che ci sia un posto anche per loro nel mondo. Un posto in cui essere riconosciuti».

 

 

Il libro è corredato da 30 foto del fotografo Marco Ciampani, piene di profondi rinvii a significati di cui il lettore non può fare a meno di nutrirsi…

«Un lavoro autentico, quello svolto da Marco. Un artista che stimo molto e con cui sono stata felice di collaborare. Ogni immagine è stata da lui ideata dopo la lettura dei miei Post-it: un lavoro vergine, dunque, che ha reso ancora più interessante la mia parola. Io sono molto affezionata all’immagine di copertina, che sono andata a cercare fra scatti realizzati dall’artista tanti anni fa. Quando l’ho vista non ho avuto dubbi: doveva essere lei. Un bimbo accovacciato su due sedie di legno di colore opposto, una bianca e una nera: forse dorme, forse sogna. Ma è lì, aggrappato in un perfetto e comodo equilibrio: una posizione fetale che lo rende sereno fra i suoi unici punti di appoggio».