La Città CULTURA E SOCIETÀ mercoledì 21 agosto 2013 17 Novantadue primavere e la gioia d’essere giornalista PERSONAGGI Lino Manocchia si racconta: «Nel ‘46 lasciai Giulianova per New York». A ottobre un libro di interviste e memorie Una storia lunga, quella di Lino Manocchia, che giovanissimo lasciò la sua Giulianova per approdare a New York. Dopo la prigionia nei lager tedeschi tornò a casa e trovò attorno a sé morte e distruzione. Decise allora di tentare la carta degli States e solcò l’Oceano. Pian piano, quella che un tempo era la terra delle opportunità gli ha permesso di diventare quel che sognava: un giornalista. La sua lunga carriera è cominciata così, con un salto dal vecchio al nuovo continente. In tanti anni di lavoro, Manocchia ha firmato servizi per la Rai, si è occupato di sport – a cominciare dall’amatissimo automobilismo – ha intervistato cinque presidenti Usa, Salvador Dalì e una folta serie di star di Hollywood, fra cui quel Paul Newman che fu suo amico. Una vita spesa per un giornalismo vissuto in prima persona, a tu per tu con i fatti e i protagonisti, tra radio, televisione e carta stampata. Un giornalismo vissuto come seconda pelle, con l’entusiasmo dell’adolescente e l’umiltà del saggio. In autunno il novantaduenne Manocchia – che giusto sabato scorso ha ricevuto un premio dall’Accademia di San Giovanni Crisostomo – darà alle stampe con la casa editrice Artemia un libro, una raccolta di interviste e memorie. In attesa di leggerlo, abbiamo pensato di intervistarlo per farci raccontare qualcosa sul suo percorso. E lui, dalla sua casa di Cambridge, nello stato di New York, ha accettato di buon grado. Quand’è che decise di partire per gli Stati Uniti? «Dopo tre anni di vacanza nei lager tedeschi, tornato in Italia, trovai mio padre al cimitero, ucciso dalla scheggia di una bomba sganciata degli aerei inglesi. Trovai anche mio fratello Benny ferito in varie parti del corpo, e la mia casa distrutta. Lavorai un anno al Comune di Giulianova continuando a scrivere per «Momento sera» ed altri fogli che avevo dovuto lasciare partendo per la Germania. Furono poi alcuni direttori a suggerirmi di “attaccare” gli Stati Uniti, e dopo le dovute documentazioni, il 6 marzo 1946 mi accinsi ad attraversare l’Oceano per arrivare a New York». Qual è stato il percorso che, negli States, l’ha portata a diventare un giornalista? «Momenti duri per un abruzzese che non parlava l’inglese. Aiutai mio suocero, Adriano Di Michele, emigrato da Giulianova, e imparai il mestiere del macellaio. Intanto trovavo il tempo per inviare servizi sportivi ai quotidiani italiani – «Stadio» e «Corriere dello sport» – e periodicamente trasmettevo servizi per le redazioni regionali della Rai, partendo dall’Abruzzo, dove allora era direttore l’amico Dino Tiboni. L’ingresso nelle stazioni radio di New York fu rapido: presentavo interviste e intermezzi musicali. Incontrai Mike Bongiorno quando anche lui faceva la gavetta, e finimmo a Voice of America, mentre l’amico Ruggero Orlando mi diede la giusta spinta, piazzandomi alla Rai di New York. Alla Rai, dopo i servizi regionali di cui parlavo, abbracciai servizi di una certa importanza, ai tempi di Pia Moretti, Carlo Bonciani e una schiera di vari direttori. Mi permetto di segnalare il plauso della Rai di Torino per un mio documentario sull’Anno Geofisico, che ottenne il massimo del coefficiente d’ascolto, superando anche l’inchiesta, fatta per la Rai di Palermo, per il Ponte sullo stretto. Una cornucopia di registrazioni gelosamente custodite nel mio palmares. Ho intervistato dozzine di star di Hollywood. Mi sono occupato di reportage sportivi, di calcio, corse automobilistiche nella principali città americane, ho fatto servizi dal Messico, dal Canada, dal Brasile, per quaranta volte consecutive ho seguito a Indianapolis la Cinquecento Miglia. Il tutto racchiuso in sessant’anni di attività che mi hanno permesso, fra l’altro, di intervistare cinque Presidenti degli Stati Uniti». Ha avuto dei maestri o è stato autodidatta? «Il primo “maestro” fu mio padre Francesco Manocchia, scrittore di fama, che mi strappò un servizio sulla “Maggiolata” di Giulianova. Mi disse: “Con simili servizi finirai per fare la fame”. Ma la costanza, la pazienza e un tocco di fortuna non mi hanno fatto chiedere l’elemosina ». Che giornalismo era quello degli anni in cui esordì? «Un giornalismo da sacrestia, una incoerenza ideologica della Democrazia Cristiana, una falsariga del movimento di sinistra dove regnava un motto: se sei con noi entra, altrimenti esci». Quali sono le differenze tra il giornalismo made in Usa e quello made in Italy? «Negli Stati Uniti c’è l’indipendenza del giornale, quando basta a se stesso, e c’è la facilità di separare i fatti dalle opinioni. In Italia c’è l’arte di mentire con l’aria di dire la verità. Sanno essere dei grandi giocolieri della carta stampata e scrivono per se stessi e non per il pubblico, dimenticando il primo dovere d’un giornalista: essere sincero. L’indipendenza della stampa italiana è pressapoco scomparsa, poiché quasi tutti fanno parte della galassia Agnelli-Berlusconi, a muro chiuso. Un rituale artefatto a discapito dell’onesto lettore». Ma per lei che cosa ha significato, e che cosa continua a significare, essere un giornalista? «Il giornalismo mi ha insegnato la competitività leale e un principio professionale a cui non si può derogare: dire sempre ciò che si pensa, con coraggio morale. Con le mie novantadue primavere avanzate, mi riempie di gioia e di orgoglio potermi definire giornalista». Quali sono, secondo lei, le qualità che non possono mancare a un giornalista? «Una buona cultura, una certa dose d’umanità e un po’ di psicologia, unite al buon senso e al rispetto delle regole». Nel corso della sua carriera ha firmato molte interviste a grandi personaggi, da Paul Newman a Dean Martin sino ad arrivare a Mario Andretti, Salvador Dalì e altri. Qual è quella a cui è più affezionato? «Uomo dal cuore generoso, coraggioso, pronto a difendere i diritti e la giustizia nel mondo, munifico benefattore sempre pronto ad aiutare chi aveva bisogno, decano dei grandi interpreti classici, Paul Newman è stato il “vecchio” cordiale col quale, tra una corsa d’auto e l’altra, da cronista scambiavo impressioni. Il grande divo di Hollywood si considerava “un libro che ancora si doveva leggere”. Purtroppo quel magnifico saggio letterario ed umano rimarrà sconosciuto. Attore, pilota, decano delle star, aveva carisma e talento. Più schivo di uno stilita, più elusivo di una prima donna, allergico alle pose, all’enfasi, alla pubblicità, Paul “occhi blu” per trent’anni anni è stato l’amico della porta accanto. Non potrò dimenticarlo ». Come preparava le sue interviste? «Il giornalista prima di intervistare deve sapere, e per sapere deve informarsi. Naturalmente un buon curriculum dell’intervistato aiuta molto nella ricerca di domande, di sfumature che altrimenti andrebbero perdute. Ma una buona conversazione senza microfono con l’intervistato è la migliore fonte d’informazioni. Un po’ di fantasia non guasterà l’atmosfera». Qual è il limite da non superare quando si pone una domanda a una persona che si sta intervistando? «Dipende sovente dalla curiosità e dall’interesse del cronista, che spesso, per timore di “sfondare,” accorcia il numero di domande; oppure altre volte fa troppo e rovina il lavoro. Il troppo storpia e l’intervista diventa materiale da esame, un rituale artefatto e insipido ». Come giornalista, quali sono state le sue grandi passioni? «Avevo sedici anni ed ero un fan della musica americana, con i suoi Glen Miller, Tommy Dorsey, Louis Armstrong e gli altri assi delle Big Band. Sognavo il giorno in cui avrei potuto mettere piede in America e vedere la Indy, Bonneville sul Lago Salato e le grandi piste ovali, che fortunatamente, in seguito, vidi, provando spesso qualche bolide, come quello di Mario Andretti o di altri assi yankee. Era una passionaccia che fortunatamente appagai seguendo e descrivendo per la stampa italiana eventi memorabili, come la vittoria nella Cinquecento Miglia di Indianapolis del 1969 dello stesso Andretti, oggi Commendatore della Repubblica». In autunno una selezione delle sue interviste e memorie sarà pubblicata dalla casa editrice Artemia: com’è nata l’idea? «E’ stata un’idea brillante della dinamica direttrice Teresa Orsini, una vera first lady dei libri: le sono grato e sono sicuro che i lettori troveranno dettagli particolari mai pubblicati e “scoop” che coinvolgono le star di Hollywood ». Nella scelta di una casa editrice abruzzese c’è anche la volontà di riavvicinarsi alla sua terra natale? «Tante volte durante la mia collaborazione con la Rai, col «Corriere dello Sport», col «Corriere della Sera» e altre testate mi è capitato di tornare a Giulianova. Non mi sono mai distaccato da Giulianova, anzi la seguivo e la seguo dall’America più che mai. L’America è la mia seconda patria e mi ha dato libertà d’azione e di pensiero, tuttavia il sangue abruzzese continua a scorrere nelle mie vene, e non nascondo mai di essere nato e cresciuto nella spiaggia dalla sabbia dorata dell’Adriatico, all’ombra del maestoso Gran Sasso. E non lo dico in senso retorico: questo è il sentimento delle mie radici, della mia origine». Dall’America, in tanti anni di lavoro, come vedeva la sua città d’origine? «Giulianova – se vogliamo – ha la colpa di aver ignorato i suoi figli migliori. Molti sono partiti per altre mete, altri lidi, e hanno fatto largo ai cosiddetti “stranieri”, che tuttavia – mi dicono – hanno dato un buon contributo alla città. E sorpresa delle sorprese, l’odioso provincialismo di un tempo è stato accantonato. Sono scomparsi fogli ricchi di notizie ed inchieste, ma in compenso si sono moltiplicati i siti internet in grado di offrire ottimi servizi. Il mondo, del resto, accetta le scoperte e non s’arresta. E così come la televisione ha cambiato la vita dei giornali, qualche altro fenomeno in fase di transizione modificherà il nostro modus vivendi. Intanto, citando Lavoisier – “nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma” – salutiamo il futuro».