Un bacio, un sorriso, un ricordo. Questo mi sono chiesta, scorgendo il disegno della ringhiera del vecchio belvedere di Pescara del Tronto. Ho provato ad immaginare l’ultimo gesto, l’ultimo pensiero o un ultimo sguardo di spensieratezza, magari di un turista di passaggio. Pezzi di metallo e pezzi di vita che tendevano verso il cielo. E’ tutta distrutta Pescara, la maggior parte degli abitanti non ce l’ha fatta. Qualcuno annuncia alla radio che forse non verrà ricostruita. Un punto sulle famiglie, sulla storia. C’è un gran da fare lungo la strada rattoppata, uomini della Protezione Civile e dell’Esercito vigilano il passaggio, costruiscono, aiutano, senza sosta. Azioni concrete che prendono forma attraverso il fare, nel silenzio. Ecco, il silenzio. Se n’è sentito tanto parlare, e diventata la parola chiava di ogni cronaca, intervista, racconto. Ma, giuro, solo chi ha visitato quei luoghi può sentire quel “silenzio”. Lungo la strada incontriamo i paesi massacrati dall’onda sismica, tra cui Saletta.

E’ minuta e sola, i vestiti ancor appesi agli armadi a muro ci guardano. Un materasso qui, una scarpa in cima alla montagna di resti di quotidianità. Mi vergogno, sento il resto di una umanità nuda, una routine violata, costretta ad esporsi. E subito ti prende l’immaginare, il voler conoscere, storia per storia, casa per casa, quasi a volergli concedere una nuova dignità. Eccola, un’altra parola chiave. Mentre corriamo verso Sommati ecco che appare, alla nostra sinistra, un gran da fare. Uomini mimetici stanno ricostruendo un ponte crollato per metà, sono al lavoro sui pilastri e un attimo dopo sull’asfalto. Qualcuno, più tardi, li definirà la vera risorsa di un paese terremotato di valori. Li salutiamo. Ecco Sommati, in lontananza ci accoglie l’enorme tendone della Protezione Civile.

E’ un groviglio di emozioni, per quello che abbiamo lasciato e per ciò che vedremo adesso. I responsabili ci accolgono con un grande sorriso. Hanno l’aria stanca, stremata, ma sorrisi vivi e braccia forti di volontà. Soprattutto le donne. Ci avviciniamo ad un piccolo magazzino improvvisato ma ricco di ogni bene, dal cibo, alle lavatrici per il bucato di tutti, cataste d’acqua, vestiario, caramelle per i più piccoli. Tutto. Apriamo il furgone per scaricare e subito si fa una cernita e si procede ad archiviare quanto serve. Il Colibrì, già in contatto con i responsabili, ha provveduto alla raccolta. Ed ecco che vengono consegnati stivali, calzettoni, intimo, felpe, giacche, ombrelli, un computer, una stampante, pigiama, cibo per celiaci, bambini ed animali. Un respiro di sollievo, abbiamo consegnato ciò che davvero è necessario, perché tutto il superfluo causerebbe solo un’emergenza nell’emergenza. Si scorge da lontano il campo di accoglienza. Un uomo di mezza età esce da una tenda, con accappatoio, infradito ed asciugamano. Ha l’aria felice di un gesto di splendida quotidianità. Qui tutto assume un colore diverso, ce ne rendiamo conto subito. L’aroma del caffè nei bicchieri di plastica, la grande mensa allestita nel tendone principale, l’arredo. Tutto assume un ordine nel disordine, tutto sembra essere accogliente oltre modo. Gli uomini dei Vigili del Fuoco giocano con i bambini a palla, e come premio regalano le loro giacche. Un bambino su tre le indossa con orgoglio, una coppa, un trofeo dei veri eroi, mica quelli dei cartoni! Che gioia vederli correre in mezzo alla vita che con fatica vuole risollevarsi. Sono curiosi di vedere cosa abbiamo portato mentre un uomo anziano, triste, esce dal magazzino con gli stivali appena consegnati. E’ un’esplosione del cuore, un fragore, non si può descrivere. Ha l’aspetto di aver perso tutto ma acconsente a fare una foto. E le donne, mamme, zie, sorelle, nonne. I capelli raccolti, in ordine, sono loro i pilastri della rinascita dei loro uomini. Molte cucinano, puliscono, guardano i bambini. Nulla è cambiato, bisogna adattarsi ma non fa niente: la famiglia è qui, anche fosse a brandelli, ma dove c’è appartenenza c’è casa. Qui incontriamo Nando, la sua casa ha retto ma il suo ristorante è gravemente danneggiato. Ha gli occhi buoni e vispi Nando, è stato colpito ma è in piedi. Ci accoglie con incredibile entusiasmo, ci abbraccia, non mi conosce e mi stringe. Sembra lui consolare noi, capire il nostro disagio di fronte ad un dolore che sfioreremo oggi, domani saremo lontani e al sicuro. Ci porta nel ristorante, un campo di guerra: resti dell’allegria conviviale a terra, piatti e bicchieri rotti, calcinacci e la furia del terremoto che ha risparmiato nemmeno le colonne portanti. Sarà da abbattere, chissà. La burocrazia ha un corso lungo. In questo luogo sfiorato dal terrore accade una magia, qualcosa che non dimenticherò. Era uso e costume di Nando, a fine pasto, di arrivare con un bel vassoio di tazzine da caffè vuote e di far finta di farle cadere addosso ai commensali, scatenando il panico degli stessi e poi l’ilarità Ecco, Nando fa lo stesso scherzo con me. Mi si avvicina con una tazzina da caffè e fa per rovesciarla. Resto immobile per un secondo. Poi accenno ad un sorriso che vorrei fosse più rumoroso per non deludere le aspettative e mi vergogno di non riuscirci. E qui che scopro palpabile quanta forza e dignità alberga in queste persone. Nando ci porta dietro il ristorante, lì riposano i resti di una casa appartenuta a turisti inglesi. Lì sono tutti morti, genitori con i loro bambini. Si scorgono resti della vita accogliente, una doccia, tende ancora al vento e un materasso, forse quello di mamma e papà. Dove l’aria è polvere la montagna del dolore minaccia di poter ancora crollare e ci fanno allontanare. Nel vento, forte, un profumo di lavanda ci porta via per un attimo da tutto questo. Nando si offre di accompagnare me, Ambra ed Egidio ad Amatrice. L’ansia è palpabile, ancora un groviglio di sentimenti. Sulla strada incontriamo diversi posti di blocco ed i segni tangibili del terremoto. Case dilaniate le cui facciate solo quel che ieri era privato, bagni, stanze da letto, armadi privi di gravità. Qualcuno ci saluta con la mano, qualcuno abbassa gli occhi. Entriamo in un viale che ci spalanca in lontananza una grande chiesa, squarciata ma fiera, il campanile eretto ma probabilmente pericolante. <Il simbolo di una comunità che non crolla>, penso. Parcheggiamo nei pressi del palazzo comunale di Amatrice, allestito, per l’occasione, ad ufficio informazioni h 24. Dove si ergeva un grande hotel solo macerie, strati di cemento e resti, di cui scorgiamo a fatica il colore. Lì vicino incontriamo un gruppo di clown, c’è bisogno anche degli angeli del sorriso qui. Si avvicinano, ci abbracciano. Gli spieghiamo che non siamo del luogo. Non importa, ci abbracciano con calore. Foto. Lungo la strada una carovana di auto e mezzi dei Vigili del Fuoco e Protezione Civile, uomini e donne abbracciano una comunità che deve rialzarsi. Incontriamo la caserma del carabinieri. Ha retto, ma l’intonaco è gravemente danneggiato. E poi la scuola elementare, devastata. Immaginiamo di tutto, la stessa scena, in orari diversi, in giorni diversi. Con le risate ed il chiasso del bambini. Sarebbe stata una strage senza voce. Evitata ma questo non consola. Arriviamo al corso principale del paese. Qui una folla di volontari, anche le unità cinofile con gli eroi pelosi, anche loro finalmente riconosciuti tali. Uno di loro fa uno scherzo al padrone azzannando il panino che la collega gli sta passando. Ridono entrambi, non c’è spazio per il “mio” e il “tuo” ma per il nostro. Nei pressi della chiesa, sul lato, un monumento è stato abbattuto, solo i resti in bronzo di chissà quale personaggio storico, decapitato. Ecco il silenzio, quasi come fosse un incantesimo. Un viale gremito di gente e neppure un alito di vento, una voce, un rumore. Tutto è ovattato, tutto è congelato. Cerco di spezzarlo battendo il piede, è inutile. Non si scoglie. Cerco di spezzare l’aria ma nulla. Tutto è ovattato come avesse nevicato. Questo è il silenzio che solo chi è stato in questi luoghi non potrà mai più scordare. Batte ancora alle tempie. Lo si può solo rispettare. Vivere.

Torniamo a Sommati e qui condividiamo un pasto con i volontari e gli ospiti del campo.

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Non li chiameremo né sfollati né terremotati. E non per venir meno al dovere di cronaca ma per verità della stessa. Qui ci si tratta come una famiglia. Entriamo nella tenda della mensa, un odore di pulito ci invade, tavoli ben posizionati, e sulla destra una tv al plasma con le notizie del giorno, minuto per minuto. Qui informare è vitale. Intorno tanti libri e giochi per bambini, dolci, caramelle, lecca lecca e tanto altro. Dietro un’altra tenda, all’esterno, i volontari cucinano ed i bambini sbirciano, affamati. Quando la tenda si apre è una gioia. Il menù oggi serve pasta con le melanzane, straccetti, fagiolini, zucchine grigliate, frutta a volontà e melone per tutti. Le famiglie arrivano, tutte insieme, molte con ciò che resta. Sorridono e condividono. C’è chi porta dalla propria attività formaggio, salumi e vino. Tutto si condivide, tutto appartiene alla collettività. Si dona, anche quel poco, ma lo si fa. Ed è bello sentirsi parte di quel tutto, di quella comunità in viaggio. Capiamo che si può ancora sperare dopo una caduta del genere. Quando non resta altro che la volontà che ripete, “resisti”. E’stato incredibile far parte di quel tutto. Il cuore è spalancato, come ben aperte sono le mani di chi aiuta, sorregge o cerca ristoro. Le mani dei bambini, colorate su foglio, che dicono “forza”. Qui la speranza riparte dai bambini.

Questa esperienza non sarebbe stata possibile senza Ambra ed Egidio del Colibrì. Così, parlo di loro senza cognomi o cariche, ormai fanno parte di una comunità, sono il dono. Poche parole, ma fatti che sono impronte e non medaglie. Il fare costantemente e senza un attimo di esitazione “la loro parte”, nel piccolo o nel grande, è uguale per la gente di cuore. La parte dell’umanità che ancora ci fa sperare.

Grazie.

Azzurra Marcozzi