di Carlo Di Marco
Costituzionalista, docente di diritto pubblico
Università di Teramo

Stando ai resoconti giornalistici di oggi, l’assemblea dei sindaci e degli amministratori della nostra Provincia svoltasi ieri presso la sala polifunzionale a Teramo, se, da un lato, ha costituito un importante momento di confronto fra rappresentanti delle popolazioni teramane, dall’altro, nelle sue conclusioni, ha finito per avallare, nella sostanza, un disegno anticostituzionale neo-centrista di questo Governo che prosegue sulla scia tracciata dai precedenti esecutivi berlusconiani.
Una prima considerazione di carattere metodologico andrebbe subito fatta. Il mondo della conoscenza è stato tenuto scrupolosamente fuori: non un invito è pervenuto ai costituzionalisti e agli studiosi della nostra Università che negli ultimi decenni sono stati animatori di master, corsi, pubblicazioni scientifiche, convegni e seminari sulle tematiche della democrazia e delle autonomie locali. E con tutta evidenza, come anticipato in alcuni interventi sulla stampa locale da illustri colleghi (Di Salvatore), avremmo molto da dire (non da insegnare. Questo lo facciamo nelle nostre aule con i nostri studenti). Ma fatta questa considerazione, nella speranza che ai prossimi incontri (se ce ne saranno) gli amministratori locali del teramano sentiranno l’esigenza di confrontarsi anche con noi, entriamo un po’ nel merito delle questioni.
Anche se sarebbe emerso  qui e là durante il dibattito (il condizionale è d’obbligo poiché ci basiamo esclusivamente sui resoconti giornalistici di oggi), il profilo anticostituzionale del provvedimento Monti (in particolare dell’art. 17 del D.L. n. 95/2012 convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n.135) e la necessità di partire da qui per osteggiare con forza quel disegno neo-centrista sopra evidenziato, sostanzialmente non si sono affermati. Si è discusso in prevalenza sul “quomodo” e non sull’ “an”: sul come meglio accorpare, anziché sull’accorpare si o accorpare no. Le risultanze dell’assemblea, insomma, sembrerebbero essersi fermate a questo. Vero è che si è anche detto meglio abolire tutte le province, ma anche questo rientra, a ben vedere, nel disegno strategico di marginalizzazione delle autonomie locali di questo e dei precedenti governi. Invero, l’abolizione delle province richiede una revisione costituzionale della seconda parte della Costituzione che presuppone una mobilitazione seria delle forze politiche del paese, e un Parlamento di “nominati” come questo, per via di una legge elettorale scellerata, non è legittimato a farla; gli accorpamenti che hanno avuto maggiore consenso nell’assemblea di cui parliamo, ferma restando la legge di conversione, non sono assolutamente possibili. Non è proponibile «l’ipotesi di annettere alcuni Comuni del pescarese (come Penne) alla Provincia di Teramo – sostiene Di Salvatore – per soddisfare i criteri minimi imposti dal Governo (…): nella legge si dice che il riordino delle province deve essere effettuato “nel rispetto dei requisiti minimi (…) determinati sulla base dei dati di dimensione territoriale e di popolazione, come ESISTENTI ALLA DATA di adozione della deliberazione” del Consiglio dei ministri (ossia: al 20 luglio 2012)». Nemmeno è possibile creare una città metropolitana: l’art. 18 del provvedimento in questione stabilisce che le città di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli – insistenti nelle aree metropolitane individuate dall’art. 22 del TUEL (d.lgs. 267/2000), ma in precedenza fissate nella legge n. 142/1990 oggi abrogata. Dovrebbero saperlo tutti… – si costituiscano in città metropolitane nello stesso momento in cui le rispettive province vengono soppresse. Pescara non c’è mai stata, per cui non si capisce dove vada a parare una proposta di questo genere in assenza di una legge del Parlamento che recepisca la “riforma Brucchi”, ma la vediamo dura!
In realtà, ove i rappresentanti delle collettività locali teramane volessero svolgere un costruttivo e importante ruolo, potrebbero impostare l’intera questione in un duplice senso: da un lato la mobilitazione delle rispettive popolazioni (assemblee pubbliche, seminari, forum) per la difesa delle autonomie locali che sono sotto attacco da anni. Nessuno dimentichi il tentativo di “abolire” i cosiddetti comuni polvere (al di sotto dei 1000 abitanti) privati degli organi politici e obbligatoriamente “uniti” nella gestione dei servizi; dall’altro, respingere l’intero provvedimento del Governo, sottraendosi alla discussione sul come meglio accorpare le province. Questo sarebbe possibile solo attraverso il meccanismo previsto dall’art. 133 della Costituzione che presupporrebbe l’iniziativa dei Comuni, non già quella del Governo. Sotto il profilo processuale è possibile giungere ad un pronunciamento della Corte costituzionale secondo un percorso un po’ contorto, ma praticabile (già suggerito da Christian Francia): puntare all’impugnativa della delibera del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012  dinanzi al Tar del Lazio. Ciò renderebbe possibile, in sede processuale, sollevare questione di costituzionalità e suscitare l’apertura di un processo dinanzi alla Corte per violazione dell’art. 133 della Costituzione. La via processuale (che richiede un atto di saggezza del Presidente Catarra), associato ad una mobilitazione dei cittadini darebbe il segno del rinnovamento di questa classe politica spesso appiattita su interessi lontani da quelli delle popolazioni amministrate.