di Azzurra Marcozzi

Leone Tolstoj affermava con serenità che “noi moriamo solo quando non riusciamo a mettere radice in altri”. Quando non riusciamo a condividere quel innato e personalissimo incanto interiore anche con il primo passante che si incontra nella frenetica corsa al lavoro.

Quando il nostro dire e il nostro fare si fermano al primo ostacolo dell’altro. Io credo che una donna come Vittoria, solare ed incapace di negarsi agli altri, seppur inconsapevolmente, abbia fatto sua questa frase. Ricordo i suoi sorrisi lanciati a chiunque incontrasse, così come fiori che volano da un balcone. Una creatura, Vittoria, che era stata capace di mantenere intatto il suo buon cuore, nel tempo e dagli inganni umani. La is può ricordare dai modi garbati, quasi silenziosa, quando le parole poi non servono. Il suo era un canto silenzio e devoto alla vita. La stessa vita di cui si è impregnata la morte. Un trapasso incline al dolore ma certo nella solidità dei ricordi. Lei lo sapeva, Vittoria si, ne era cosciente, e non parliamo di presunzione. Sapeva quanto poteva donare e quanto ancora avrebbe potuto , in quel suo dolce e delicato modo di essere che permane negli occhi di sua figlia, la piccola Allegra. Una figlia voluta come il cielo d’agosto, un amore sincero che viveva nei suoi più cari orizzonti. Quelli di una ragazza che aveva saputo mantenere la sua semplicità, determinata nel rincorrere le passioni sportive e stracolma di affetto. Anche il giorno del suo funerale Vittoria ha voluto che le campane suonassero a festa, come in rintocchi a ribadire “Spero di aver lasciato la mia radice in voi, ora fatene buon uso”. Ha voluto ringraziare tutti gli amori della sua vita in una lettera che è stata letta in chiesa.