Intervista a cura di Azzurra Marcozzi

 

Vincenzo Core, compositore giuliese, si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria nella sezione cortometraggi,del Festival del Cinema di Torino, con l’opera audiovisiva No More Lonely Nights , realizzata in collaborazione con il regista Fabio Scacchioli. I due giovani artisti sono stati premiati direttamente dal patron del Festival, il regista Paolo Virzì.


1)Vincenzo, appassionato di musica sin da ragazzino, come hai scoperto che la musica elettronica era la sperimentazione su cui impegnare le tue energie?

E’ stato un processo di avvicinamento lento e naturale, del quale ho preso coscienza solo negli ultimi anni. L’elettronica è uno strumento offerto dai nostri tempi, se fossi nato un paio di millenni fa probabilmente avrei scritto per aulos o per lira. Di certo è solo uno strumento in più, non esclude e non sostituisce gli strumenti tradizionali.

Dell’elettronica trovo interessante la possibilità di scavare dentro il suono, avere una sorta di lente di ingrandimento che permette di osservarlo da più prospettive, di avere uno sguardo soggettivo.

Si possono creare tante relazioni: per esempio elaborando il suono potrei mettere in risalto contrasti e analogie tra un’arpa e una pernacchia, magari rendendo la pernacchia eterea e l’arpa giocosa.

In più si può interagire agevolmente con altre forme d’arte. Recentemente ho realizzato un orto con degli architetti nel quale la musica cambiava in base al vento e alla temperatura, dove le piante quando avvicinate iniziavano a cantare.

Crea un aggancio forte alla società occidentale odierna, dato che si usa quotidianamente, nel bene e nel male, per mediare i rapporti con gli oggetti e le altre persone (si pensi all’irrigazione automatica o a Facebook).

Inoltre l’elettronica è uno strumento relativamente economico, accessibile a chiunque abbia un computer e un paio di cuffie.


  1. 2)Da qui come è nato l’avvicinamento al cinema?

I miei mi affidarono la telecamera durante il pranzo per la mia prima comunione. Sprecai l’intera cassetta filmando la natura intorno al ristorante piuttosto che i parenti brindanti, con loro grande disappunto…

Io ho sempre sentito forte il bisogno di creare delle rappresentazioni, che sia un’installazione, un concerto o un’opera audiovisiva. Se avessimo più di cinque sensi e soprattutto qualcosa di meno schematico della ragione, magari potremmo conoscere meglio la nostra realtà interiore ed esteriore, forse potremmo addirittura spiegarla a parole.

Non avendo né i sensi né le parole per farlo ci affidiamo da sempre ai simboli, basta pensare a quanti ne possiamo vedere in chiesa, che servono proprio per rappresentare le cose più intime che sentiamo e non riusciamo a dire. Infatti è stato sempre tollerato che gli artisti siano un po’ pazzerelli ed eccentrici proprio perché lavorano sulla nostra zona irrazionale che teniamo sopita.

La rappresentazione simbolica per me si avvicina alla nostra essenza più di qualsiasi dimostrazione scientifica, per questo non condivido un eccessivo materialismo, anche la scienza e la tecnologia vanno prese con le pinze!

Nel cinema mi piace esplorare le possibili relazioni tra suono e immagine. Il suono può aggiungere di senso oltre che accompagnare. Per esempio quanto può cambiare la nostra percezione di una stanza vuota se insieme si sentono dei macchinari industriali o il rumore del mare?


3)Premio della giuria al Festival del Cinema di Torino consegnato direttamente dal patron, il regista Paolo Virzì: come è stato accolto a Torino il cortometraggio tuo e del regista Fabio Scacchioli?

Nel nostro programma c’erano cortometraggi più vicini al linguaggio del cinema commerciale e della televisione. Il nostro lavoro, pur essendo anche una storia d’amore, rientra nel novero della ricerca perché pone domande su quali siano i limiti del cinema, della musica, del maschile e del femminile, della rappresentazione stessa.

E’ costruito per lasciare grande spazio all’interpretazione dello spettatore.

Per questo ha suscitato accese discussioni tra il pubblico dopo la proiezione e la critica ha risposto molto bene, abbiamo avuto dei bei confronti. E’ sempre stimolante ascoltare quello che le persone hanno colto, spesso emergono aspetti ai quali non avevamo pensato!


4)Ormai sei un veterano dei Festival. Ricordiamo, infatti, la tua partecipazione a Festival di Venezia nel 2011 con il corto “Miss Candace Hilligoss” ed altri Festival nazionale ed internazionali. Da allora cosa è cambiato?

 

Non esiste un punto di svolta vero e proprio in un percorso di crescita. Venezia è stata una tappa importante sia come incentivo a continuare con serietà la nostra  ricerca, sia come possibilità di confronto con persone di culture e sensibilità differenti. Per me e Fabio creare è una necessità primaria, talmente importante da scegliere di farne un lavoro. E’ chiaro che, quando cerchi di rappresentare la voce interiore delle persone per mestiere, devi ascoltare e saper ridimensionare il tuo ego. In un film non possiamo lasciare un’immagine con un suono per dieci minuti solo perché per noi è bella, deve rapportarsi alle altre immagini partecipando all’energia di un’opera. Una composizione è un organismo vivente, tutte le sue parti sono legate, si influenzano e si trasformano.

Se non accetti il confronto rischi di sbrodolarti e di annoiare inutilmente le persone con i tuoi soliloqui.


  1. 5)Il tuo lavoro include una ricerca sensoriale molto acuta: quale consiglio dare a chi ascolta musica elettronica, per recepirla in modo completo?

La musica elettronica si concentra sulle trasformazioni del timbro, che è il parametro più complesso e misterioso del suono. Possiamo dire se un suono sia forte o piano per valutarne l’intensità, acuto o grave per l’altezza, invece per il timbro due sole categorie non bastano, dobbiamo usare aggettivi poetici come ruvido, chiaro, tagliente.

Come dicevo io considero l’elettronica solo come uno strumento. Per quanto riguarda l’arte di ricerca, è fertile avere un ascolto attivo, passare dall’ascoltare al lasciarsi ascoltare dall’opera.

L’arte di ricerca non si pone l’obiettivo di farci bere un finale tragico o un lieto fine spiegato minuziosamente per risparmiarci la fatica di porci delle domande.

E’ un gioco di indovinelli, senza risposte uguali per tutti. Bisogna abbandonarsi al gioco, cercando un percorso soggettivo all’interno dell’opera.


  1. 6)Il post Torino; cosa c’è all’orizzonte?

Finora abbiamo realizzato opere utilizzando immagini tratte da film esistenti, ora stiamo lavorando a un’opera audiovisiva con materiale girato da noi. L’opportunità di girare ci è stata data dal Centro accademico per i film di Belgrado che ci ha ospitato un mese.  

Sarà sempre una pseudo-storia d’amore, in un teatro dove la luce si muove costantemente.

Il titolo del film è “Bang Utot”, il fenomeno per cui sogni di morire e poi muori veramente, ma alla fine non sarà così tragico!